In occasione della mostra “Lightscape”, presente negli spazi di PR2 fino al 07 giugno, abbiamo fatto quattro chiacchiere con l’autrice Maria Chiara Mignani
Ha inaugurato lo scorso 18 maggio la mostra pittorica “Lightscape” dell’artista Maria Chiara Mignani.
Le abbiamo fatto qualche domanda per conoscere meglio il suo percorso e il suo lavoro.
Sappiamo che sei stata un’insegnante di matematica. Quando hai cominciato a dipingere e perché?
Dipingere è sempre stata una mia passione. Volevo fare il liceo artistico ma i miei genitori non me l’hanno permesso. Ho, quindi, frequentato il liceo scientifico, mi sono laureata a Bologna in una facoltà scientifica, poi ho vinto il concorso per l’insegnamento a Venezia. Questa cosa che avevo dentro, però, veniva fuori sempre.
Quando ho cominciato ad insegnare, avendo tempo libero a disposizione, mi sono finalmente dedicata alla pittura. Ho iniziato a seguire vari corsi, apprendendo le varie tecniche pittoriche: dall’ olio all’affresco, dalla pittura a tempera con l’uovo all’uso delle terre all’acquerello. Dopo vari anni di copie, esperimenti, corsi, ho scoperto che la pittura ad olio era la mia strada.
Ho passato diversi “periodi”.
Nel periodo impressionista dipingevo una Venezia molto velata, le atmosfere erano più invernali ed era tutto soffuso da una luce nebbiosa. Con questi lavori ho iniziato ad esporre alle prime mostre.
Il mio secondo periodo richiamava, invece, Morandi (avendo abitato a Bologna dopo il liceo). Ho cominciato a dipingere nature morte che mi componevo io a casa con una luce che mi piacesse. Cercavo di cogliere sfumature e ombre più che forme. Nelle mie nature morte spesso ho utilizzato la tecnica del collage. Ad esempio, nei bacari veneziani (vecchie osterie) servono i “cicchetti” in una carta gialla. Io la usavo come base nelle composizioni per dipingere nature morte con i pesci.
Ho anche sperimentato il mosaico. Questa tecnica, chiaramente, non richiama solo Venezia ma anche Ravenna.
Ho spesso utilizzato le mie conoscenze matematiche nei quadri, ad esempio in “Bosone di Higgs” o “Macchie solari “o “Sezione aurea” (presenti in mostra ndr). Le formule vengono inserite come dei graffiti nel quadro.
Dov’è nata l’idea del “Wa”, il segno distintivo presente in tutte le tue opere, e come la inserisci nei tuoi dipinti? Come scegli quali caratteri e ideogrammi inserire? Come mai questo legame con la tradizione nipponica?
Durante il mio viaggio in Giappone, sono stata colpita dalla straordinaria coesistenza di mondo antico ed estremamente moderno; da una parte le città tradizionali come Kyoto e Nara, dove erano presenti donne ancora con il kimono, templi, ciliegi, cerimonia del tè e dall’altro Osaka o Tokyo città totalmente industrializzate.
Ho, quindi, studiato l’arte Ukiyo-e e i principali paesaggisti giapponesi del periodo Edo, come Hokusai, Hiroshige, Utamaro, Kuniyoshi e Gyokudō, che coglievano gli aspetti naturalistici delle città al ritmo del variare delle stagioni.
Per loro la natura, “shizen”, ha un significato di vita, hanno un enorme rispetto nei confronti della natura. Stanno ore a contemplare il sakura – i ciliegi – la cui fioritura dura un giorno per poi cadere come fosse pioggia. C’è tutta una filosofia di armonia, di bellezza, di rispetto.
Ora di questo viaggio in Giappone sono rimasti gli ideogrammi, ma precedentemente ho avuto anche un periodo giapponese dove i soggetti erano principalmente i cambiamenti della natura nelle quattro stagioni, l’utilizzo della foglia d’oro e una molteplice varietà di piante e fiori.
Conosco gli ideogrammi più comuni, ma non mi piace riprodurli con il pennello perché ritengo che dietro ci sia tutta una tradizione, una filosofia e un’abilità che io non conosco. Ritaglio quelli che mi ispirano da giornali, libri e riviste giapponesi che mi procuro. Spesso cerco un ideogramma che non tanto per il significato quanto più per il colore si possa inserire nel quadro; a volte, invece, lo decifro e lo utilizzo per esprimere esattamente ciò che voglio dire.
Come hai già spiegato, l’oro dei tuoi dipinti è un chiaro riferimento a Ravenna e Venezia, ma ci sono altri motivi dietro all’ uso della foglia d’oro? Ad esempio, come vediamo nella tua serie “Lightscape”, l’oro è utilizzato per rendere il riflesso del sole o marcare la linea dell’orizzonte. C’è un motivo dietro questa scelta?
L’oro è una chiara derivazione sia dal mosaico che dalla trasparenza dei vetri e dai riflessi del sole sull’acqua. Notoriamente, poi, l’oro dà una luce molto particolare. Io abito al Lido che è un’isola tra il mare e la laguna. Il sole sorge dal mare e tramonta in laguna, quindi io vedo sempre Venezia con la luce del tramonto e il mare con la luce dell’alba. Specialmente d’inverno, una luce particolare si riflette nelle onde e illumina non solo l’orizzonte, ma anche le facciate dei palazzi e le cupole delle chiese.
Il mio oro è un riflesso, è l’orizzonte, ma rappresenta anche una demarcazione tra cielo e mare e, comunque, un quid che mi consente di esprimermi trasformando la luce in colore.
Rimanendo sul tema dei colori, le tue opere più pittoriche presentano spesso il tema del mare. Si tratta chiaramente della laguna di Venezia, ma ci sono altri paesaggi a cui ti ispiri per le tue opere? Qualcuno ci ha visto persino la foce del Bevano di Classe.
Questo blu predominante è derivato anche dal periodo di lockdown. La mostra che ho fatto a Venezia dopo il lockdown si chiamava “Feeling Blue”, che tradotto letteralmente in inglese significa “Sentirsi tristi”. Per me il blu non era associato a sentimenti di malinconia e tristezza, ma, al contrario, aveva valenza positiva.
Per me il colore blu è quello che meglio rappresenta l’impareggiabile armonia dell’infinito e il perfetto equilibrio tra cielo e mare. Durante il lockdown non si poteva uscire: io avevo il mare davanti e la laguna alle spalle quindi potevo spaziare con gli occhi e con l’anima in tutte le tonalità del blu, dal cobalto al blu di Prussia. Per me dipingere era un respiro di libertà perché non potendo fare nulla all’esterno, guardare fuori e portare il cielo e il mare sulla tela, mi permetteva di vivere emozioni particolari.
Adesso mi sono avvicinata sempre di più all’astrattismo.
Alcuni quadri, che rappresentano serie di paludi, potrebbero essere riferiti alle paludi che ho sempre visto andando a Marina Romea, a zone sabbiose tra terra e mare, foci di fiumi ricche di vegetazione o a quando vado in barca in laguna tra “i ghebi” delle “barene” in cui si ritrovano oasi paludose naturalistiche di una bellezza straordinaria ricche di aironi, garzette, rondini di mare, fratini che in questo ambiente protetto vanno a nidificare in mezzo a salicornia e limonium. Questi sono colori e immagini che ho impressi nell’anima.
Considerando le serie che hai portato in mostra, quindi “Lightscape”, “Infinito” e “Trame”, notiamo un passaggio netto dal figurativo all’astratto, passando per la pop art e le avanguardie novecentesche. A cosa o chi ti ispiri? Cosa ti porta ad essere più o meno astratta?
La mia pittura è evocativa-astratta. Evocativa perché è fatta di ricordi che mi vengono in mente quando prendo in mano il pennello, astratta perché io voglio che sia il visitatore ad entrare dentro l’opera e immaginare quello che vuole. Se facessi le cose delineate sarei io a proporre la mia visione agli altri, invece a me piace l’astratto come interpretazione individuale e sensazione che può creare negli altri.
Le principali correnti artistiche a cui mi sono ispirata sono lo spazialismo, nato negli anni ’45-50 con Fontana e successivamente si uniranno i giovani Rampin, Tancredi (il mio preferito) e Licata. I pittori spazialisti non hanno come priorità l’immagine pittorica in sé e non desiderano semplicemente definire una corrente di stile bensì affrontare, attraverso l’opera d’arte non solo pittorica, il problema della percezione onnicomprensiva dello spazio inteso come somma delle categorie assolute di tempo, direzione, suono e luce.
Come ha detto Kandinsky: “L’arte oltrepassa I limiti nei quali il tempo vorrebbe comprimerla e indica il contenuto del suo tempo, spesso è madre dei nostri sentimenti”.
Per me è esattamente così, quando dipingo affiorano alla mente immagini già viste, ricordi impressi nella mente e sedimentati nel tempo che si materializzano sulle tele.